sabato 2 giugno 2012

Cosimo Devito, una medaglia d'onore per un no

     Oggi, 2 giugno, festa della Repubblica, è festa anche per il martinese Cosimo Devito, 89 anni ben portati, che riceve a Taranto la medaglia d’onore: un riconoscimento morale per gli internati nei lager nazisti. È un gesto che non vuole essere di consolazione da parte della Prefettura, ma ha un alto significato morale di cui chi non è stato un reduce deve rendersi conto: significa ricordare che nel 1943, quando l’esercito era allo sbando, il re aveva abbandonato Roma, Mussolini ritornava al potere in quella repubblica dominata dai tedeschi invasori, degli uomini, dei semplici soldati, cui venne posta una scelta seppero dire di no.
     Cosimo Devito, nato nel 1923, quando il fascismo era appena salito al potere, fu, come gli altri ragazzi della sua generazione cresciuto in una retorica roboante fatta di preparazione alla guerra; aveva vent’anni quando, nel settembre 1943, prestava servizio come aviere in Albania e vide scendere da un aereo il generale Cavallero, capo di stato maggiore dell’esercito, insieme a un ufficiale tedesco. Ai soldati presenti fu chiesto se volevano aderire alla repubblica fascista, tornare in Italia, rivedere i propri cari; la risposta fu un coro di “no”.
     «Qualcuno» ricorda Cosimo, «accettò, più che altro per timore di rappresaglie». Da allora iniziò l’odissea del giovane martinese: tutti i militari che rifiutarono furono messi praticamente agli arresti, portati a Tirana e messi su un treno. «Ci dissero che tornavamo in Italia, a Trento: invece ci portarono a Zagabria, dove ci fecero scendere e ci chiesero ancora, in modo minaccioso, se volevamo aderire alla repubblica di Salò. Rifiutammo ancora». Il treno di quelli che, con il loro rifiuto erano diventati dei prigionieri proseguì per la Germania, ad Amburgo; da qui furono portati a Stablack, oggi Dolgorukovo, nella Prussia orientale, quel territorio che oggi appartiene alla Russia e che allora era tedesco.
     «Ebbi la prontezza di spirito di dichiararmi un contadino: chi ammetteva di essere un operaio fu mandato nelle fabbriche che erano costantemente bombardate. Io invece fui costretto a riparare le linee ferroviarie». Da prigionieri a schiavi: con l’avanzare del fronte, nel 1944, gli italiani sopravvissuti furono deportati in un paesino allora sconosciuto, Auschwitz. «Era terribile» ricorda Cosimo «noi eravamo tenuti separati dai prigionieri ebrei, non fummo marchiati come loro, ma lavoravamo nelle miniere di carbone, a settecento metri sotto terra, mentre sopra gli aerei bombardavano e noi avevamo il terrore di rimanere sepolti vivi».
     Fu salvato da un ingegnere polacco che lo prese con sé sottraendolo alle miniere. La liberazione arrivò con il ritiro dei tedeschi dal fronte: «portavano tutti via, lasciando solo i malati. Noi fummo dimenticati perché arrivò una pattuglia russa e ci fu una sparatoria con le SS. Una pallottola vagante colpì un italiano, pugliese come me, che morì dissanguato». Da allora l’idea fissa del ritorno: come fare? Da Katowice, dove furono raccolti gli italiani internati, si spostarono a Cracovia, accolti dal segretario dell’arcivescovo: un giovane e sconosciuto Karol Wojtyła, che prese a cuore la loro sorte e gli diede un documento della Croce Rossa, con il quale poterono passare la frontiera. Diretti a Praga, dove ancora combattevano tedeschi sbandati, il loro treno prese la via della Serbia.
     Da lì risalirono per Lubiana e poi, finalmente, Trieste, dove gli italiani furono presi in consegna dagli inglesi che però non volevano lasciarli ripartire e li trasferirono a Udine. Cosimo e un suo commilitone pugliese presero al volo un camion di un reparto indiano diretto a sud, ad Ancona, da lì, con un po’ di fortuna arrivarono a Bari, dove inviò un telegramma a casa. Incamminatosi, tornò a Martina senza sapere cosa vi avrebbe trovato. Alla sua vista, la madre di Cosimo crollò a terra piangendo, il padre si commosse. Questo è il significato e il senso di una medaglia d’onore a chi, come lui, fu uno dei 700.000 tra militari e civili internati e resi schiavi per un “no” a un regime che aveva soppresso la libertà.

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