sabato 7 aprile 2012

Pasqua a Martina: tradizioni della Settimana Santa

La Settimana Santa inizia con la domenica delle Palme, durante la quale si benedicono i rami di ulivo da scambiare con amici e parenti. Tradizione vuole che i rami posti il più vicino all’altare, e quindi benedetti per primi, siano ritenuti più efficaci nel portare protezione ai luoghi o alle persone ai quali erano destinati. Le palme, in segno di buon auspicio, si posizionavano dietro ad ogni porta, sopra le immagini sacre, sul capezzale del letto. La benedizione delle Palme avveniva a Martina in due momenti: una prima funzione si svolgeva alle quattro di mattina nella chiesa di San Martino per “l’ommenə de fòrə”, mentre una seconda veniva ripetuta a metà mattina in modo più solenne in tutte le altre chiese.

Grande partecipazione riscuoteva un rito del Mercoledì Santo: “lə tri̭mulə” cioè la rievocazione del terremoto che scoppiò sul Calvario nel momento in cui il Crocifisso esalava l’ultimo respiro. Questo veniva ricordato dai fedeli presenti in chiesa battendo piedi e mani sui banchi di legno, spostando con violenza sedie e inginocchiatoi, facendo un gran rumore.

Il Giovedì Santo si visitano i sepolcri. Tradizione vuole che le visite alle varie chiese siano di numero dispari e che durante la visita dell’ultima chiesa si entri e si esca due volte da essa per liberarsi dal malocchio.

Durante la messa dell’Ultima Cena si suonano per l’ultima volta le campane, che restano mute fino al momento della Resurrezione. A tal fine si “attaccàvənə lə campènə”, cioè si legavano le corde delle campane per evitare che qualcuno violasse il divieto. Al posto loro per avvisare i fedeli delle funzioni si usavano “lə turnacculə”, le troccole. Al mattino del Venerdì Santo veniva celebrata la “messa scerrètə”, di breve durata, perché priva dell’Eucarestia. Il momento culminate di tutta la Settimana Santa è la processione dei Misteri, istituita a Martina nel 1716. I gruppi di statue che sfilano tradizionalmente sono otto, in ordine di uscita: Cristo nell’Orto degli Ulivi (Cri̭stə a lə Palmə), Giuda (u ‘nfamònə), la Flagellazione (Cri̭stə a culònnə, mentre i due aguzzini che flagellano Gesù sono detti faccəvìrdə), l'Ecce Homo (la figura di Pilato viene chiamata in dialetto Caifàssə, quella del suonatore di trombetta ha il soprannome di Marti̭nə lə cə̀cərə), La Veronica, il Calvario, Cristo Morto, (Cri̭stə Murtə) l’Addolorata (Addulurètə).

Una nota merita la statua di Giuda, che fu introdotta a fine ottocento dal sacerdote Felice Marinosci, con l’intento di esporre al pubblico disprezzo la figura del traditore per eccellenza. Il passaggio di tale statua suscitava ogni sorta di reazione: insulti, bestemmie, lancio di sassi, ragione per la quale per diversi periodi è stata sospesa la sua uscita per evitare che fosse turbata la solennità della sacra rappresentazione. Da sottolineare che a Martina, a differenza di quanto accade a Taranto, dove per acquisire il diritto di portare le statue si versano cospicue somme di denaro, i portatori di statue non pagano alcuna somma. Anzi, dalla fine degli anni ’70 fino al 1992 sono stati pagati i portatori di quelle statue che non incontravano il favore dei confratelli, cioè Giuda, la Flagellazione, l’Ecce Homo.

Un rito scomparso da tempo ma che era presente anche a Martina è quello dei “cirenei” e dei “flagellanti”. I primi erano dei penitenti che ricordavano Simone di Cirene, l’uomo che fu obbligato dai romani a portare la croce di Gesù sul Golgota, e aprivano la processione portando addosso pesanti croci costruite da essi stessi. I flagellanti invece si percuotevano il corpo seminudo con grosse funi.

Il sabato Santo arrivava il momento della gioia, che veniva chiamato “sparà a vulòrjə”, ovvero sparare alla gloria. Difatti, al momento della proclamazione della Resurrezione, al suono delle campane a festa, esplodeva la gioia che metteva fine al periodo della penitenza. Nelle strade si facevano scoppiare mortaretti, mentre alcuni cacciatori impallinavano le quarantène appese nei vicoli. La prima operazione che si compiva una volta tornati a casa dalla messa era quella di “caccià u diavolə”, che consisteva nello sbattere le porte delle stanze, degli armadi, degli stipi, scopare dall’interno delle stanze verso la strada, per far allontanare il diavolo dalle proprie abitazioni.

Il giorno di Pasqua per festeggiare si usava anche “sci̭ candà all’ovə”: i ragazzi si divertivano ad andare per case e masserie a chiedere in dono delle uova, simbolo di fecondità e rinascita, cantando ritornelli come questo, messo in rete tempo fa da un gruppo di martinesi e che vi ripropongo:

Un ultimo rito si compiva il giorno dopo, cioè il Lunedì dell’Angelo, caratterizzata dalla scampagnata in compagnia di amici e parenti per trascorrere ore piacevoli all’aperto, in mezzo alla natura. Andare nei boschi si diceva “sci̭ prucà u murteciddə” cioè “andare a seppellire il morticino”, perché in tempi remoti spesso si andava a mangiare presso le tombe dei propri defunti.

Nessun commento:

Posta un commento